Canto V della Divina Commedia, a cura di Martina Michelangeli
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
dicono e odono, e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
«guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?».
«La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a vui,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Prima di addentrarci nella spiegazione di questo canto dobbiamo avere in mente la struttura del primo Regno ultraterreno, per poter capire il motivo per cui Dante inizia il quinto canto con il verso : “Così discesi del cerchio primaio/ giù nel secondo...”.
Dopo aver attraversato la “selva oscura”, l’Antinferno e il primo cerchio costituito dal Limbo, il Poeta entra insieme alla sua guida nell’Inferno vero e proprio: i primi dannati nel Regno del Male sono i lussuriosi e si trovano nel secondo cerchio del primo girone infernale, quello degli incontinenti.
Il canto V inizia con Dante che spiega ai suoi lettori di essere passato dal primo cerchio, cioè il Limbo, al secondo: custode di questo cerchio è Minosse , un giudice che conosce i peccati commessi dal dannato che si trova di fronte a lui, il quale compie il gesto di far girare la sua coda intorno alla sua vita per un numero di volte che corrisponde al numero dei cerchi infernali in cui dovrà subire la dannazione eterna il peccatore: cioè, se Minosse avesse avvolto la sua vita con la coda per cinque volte il peccatore doveva collocarsi nel VI cerchio, cioè tra gli eretici e gli epicurei. Dante rimane stupito dalla visione del demone, che accorgendosi della presenza del Poeta, vivo tra i morti, e della sua guida parlerà a Dante cercando di intimorirlo facendogli notare che non dovrebbe trovarsi lì e non deve fidarsi della sua guida, essendo Virgilio un’anima del Limbo, e non deve credere che la strada da percorrere sia semplice per via della grandezza dell’Inferno, cioè della grande via della perdizione. Virgilio ammonirà Minosse come fece con Caronte , attraverso due famosi versi spiegando al demone che il viaggio di Dante è stato voluto dalla grazia divina e che nessuno può intralciare il suo cammino verso la salvezza :
“Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare” .
Dopo l’incontro con Minosse si cambia subito scena e Dante inizia la descrizione del secondo girone nel quale sono puniti i peccator carnali: Dante ascolta le grida di dolore, trovandosi in un luogo che lo porterà al pianto. È arrivato in un luogo privo di luce che “mugghia” come fa il mare a causa della tempesta, se è sferzato da venti contrari. Il Poeta descrive in questo momento la dannazione a cui sono condannati i peccatori di questo girone: la bufera infernale che mai non si quieta, con la sua violenza trascina quelle anime dannate, le tormenta, percuotendole e rivoltandole. Le urla, il compianto e il lamenti aumentano di intensità; qui bestemmiano la potenza divina. Proprio da questi lamenti Dante capisce che in questo luogo di perdizione sono puniti i peccatori carnali, che nella loro vita hanno sottomesso la ragione al piacere.
L’Alighieri utilizza una famosa similitudine per descrivere una parte di questi peccatori: come le ali portano gli storni in inverno, in schiere ampie e compatte, così quel turbine (il vento della bufera infernale) trascina quelle anime malvagie di qua e di là, in su e in giù: non le sostiene mai nessuna speranza né di una tregua, né di una minore pena. Dante utilizza un’altra similitudine per spiegare la composizione di un’altra schiera di dannati che si trovano in quel luogo, i quali si differenziano dagli altri prima descritti: come le gru vanno ripetendo i loro lamenti ( “lor lai” ), formando in cielo una lunga riga, così Dante vede muoversi, emettendo voci di dolore, anime trasportate da quella tempesta; il Poeta parla con la sua guida chiedendo chi fossero quelle anime che sono in questo modo violento castigate dal vento e Virgilio risponde facendo un elenco di personaggi conosciuti nella storia e nella letteratura: la prima delle anime elencate fu regina di popoli che parlavano diverse lingue, la quale fu così dedita alla lussuria che nella sua legge rese lecito il vizio del piacere carnale, quest’anima è quella di Semiramide, della quale si legge che fu la sposa di Nino e succedette a lui diventando regina della terra che regge il Soldano. Altra dannata è Didone, personaggio dell’Eneide, quindi anima cara a Virgilio, che per essere stata innamorata del grande Enea si uccise, e ruppe la fedeltà alla tomba di Sicheo; altra lussuriosa nominata da Virgilio è Cleopatra. L’elenco continua e tra i nomi importanti troviamo: Elena, per colpa della quale si trascorse tanto tempo nefasto, per la guerra di Troia, e il grande Achille, che alla fine combatté con amore, e infine Paride e Tristano. Si conclude qui l’elenco dei grandi personaggi che scelsero la passione invece della ragione nella loro vita.
7 ottobre 2013
“E come li stornei ne portan l’ali / nel freddo tempo, a schiera larga e piena, / così quel fiato li spiriti mali / di qua, di là, di su, di giù li mena; / nulla speranza li conforta mai, / non che di posa, ma di minor pena”. Inferno, canto V: vv. 40-45.
I canti
I canto inferno
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Canto III inferno
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